Descrizione
Sorto nel XII secolo sullo strategico crocevia che collega e unisce gli storici rioni della borgata, in esso predominano i caratteri del Rinascimento clesiano. L’interno conserva un vasto e stupefacente ciclo di affreschi di Marcello Fogolino, datato 1543.
Posto nel cuore del rione di Prato, è attorniato dal settecentesco Palazzo Dal Lago de Sternfeld e dall’ottocentesco Palazzo Scotti, oggi sede municipale. In esso, sorto sullo strategico crocevia che collega e unisce gli storici rioni di Cles, predominano i caratteri del Rinascimento clesiano, splendida evoluzione di una casa-torre medievale, oggi centro propulsore di eventi culturali. La rinnovata attenzione degli studiosi nei confronti di questo straordinario manufatto ha fatto seguito ad una lunga e proficua opera di studio finalizzata al suo restauro: un accurato intervento, promosso dall’amministrazione comunale di Cles, iniziato nel 2005 e conclusosi nel 2009.
L’opera di restauro, con la conseguente apertura al pubblico, ha riconsegnato alla comunità clesiana e trentina un manufatto di altissimo valore storico-artistico, per secoli centrale nella vita delle comunità delle valli di Non e di Sole, ma che ha portato a importanti scoperte, a partire dalla serie di affreschi posti al terzo piano, di cui si tratterà approfonditamente più avanti. All’indomani della sua apertura al pubblico, Palazzo Assessorile ha recitato da subito un ruolo da protagonista come centro promotore di cultura per Cles e il Trentino, ospitando innumerevoli iniziative culturali: dalle mostre alle conferenze, dalle rappresentazioni teatrali ai concerti (sono ben 62 le mostre che le sale del palazzo hanno accolto dal 2009 a oggi).
L'architettura
Quello che oggi appare come un unico organismo architettonico è il frutto di una serie di evoluzioni. Infatti, il palazzo è il risultato dell’unione di corpi architettonici diversi. L’organismo architettonico originario era una torre duecentesca, come emerge da un documento datato 2 maggio 1356, anno in cui Iosio del fu Enrico di Sant’Ippolito comperò da Giovanni del fu Arpone di Cles, la casa-torre a pianta quadrangolare con cinta muraria. Una casa torre, di cui oggi rimangono i muri perimetrali, è perfettamente leggibile da terra fino al secondo piano. Oggi riconoscibile, all’esterno, dall’angolatura in pietra sul lato ovest, vicino allo sporto e all’interno riconoscibile per la diversa tessitura muraria e dalla presenza di due feritoie in corrispondenza del vano scale. Si trattava di un robusto edificio, a pianta quadrata elevato su tre piani, divisi da impalcati lignei, comunicanti fra loro tramite una botola, posta in un angolo della stanza e dotata di scala. Come ipotizza Paolo Passardi, l’edificio doveva sorgere su un piccolo dosso, a margine della zona paludosa che occupò la piazza principale di Cles. La funzione abitativa era sostanzialmente ridotta a fatto di emergenza, poiché collocata in un sito inadeguato a scopi difensivi o anche strategici: ciò spiega le devastazioni e i saccheggi subiti a più riprese dall’edificio nel corso del XIV secolo e XV secolo. Nel largo e vario paesaggio della Valle di Non si inseriscono con autorità parecchie costruzioni feudali che sono anche una squisita sintesi dell’evoluzione residenziale di fortezze alpine. Palazzo Assessorile esprime il rapporto tra l’attività umana, economica, culturale, sociale e il territorio. Esso doveva essere parte del paesaggio montano di Cles già dal 1200. In quel tempo rappresentava, insieme alle altre torri di visone di Mechel, la torre dove sorge ora Castel Cles, torri di Tuenno, e Mostizzolo, le sentinelle paesaggistiche della Valle. Si trattava di una casa-torre isolata, che poteva dare ospitalità a soldati e viandanti, costruzione frequente nel Trentino fra l’XI e il XIII secolo. Come dice Aldo Gorfer […] Apprestamenti d’uso militare e di controllo, dipendenti da signori feudali o gestiti dalle comunità […] situati in luoghi emittenti o a presidio di dazi o di confini. La prima struttura sorta sul luogo era una casa-torre. Essa era di forma quadrata con il lato di undici metri e lo spessore della muratura di circa un metro. L’accesso alla torre avveniva attraverso una porta aperta a parecchi metri dal suolo e vi si accedeva appoggiando una scala al muro. Addossata alla torre vi è stata rilevata la cinta muraria, posta a sud – est, a difesa della torre. Il pianoterra era utilizzato come cantina e dispensa, raggiungibile tramite una botola dotata di scala. Essendo questa una stanza cieca, poteva anche essere impiegata come prigione o cisterna. Dalla porta rialzata si accedeva direttamente alla camera del primo piano, adibita a cucina, nella quale dormivano anche le donne di servizio. Il dormitorio della famiglia era ubicato al secondo piano, fornito di latrina e camino; mentre il terzo piano era occupato dalla sala maggiore, sopra il quale alloggiavano i pochi soldati di guardia. Tra i disagi di una struttura turrita e mal servita, vi era anche l’illuminazione: gli ambienti erano generalmente illuminati da strette feritoie prive di vetri e chiuse da impannate di legno. Dalla metà del Trecento sino ai primi anni del Quattrocento, avviene l’amplificazione della cinta muraria e la conclusione della merlatura e l’aggiunta di elementi architettonici come il portale ogivale. Le tecniche di costruzione di un tempo erano in sintonia con l’ambiente attiguo a tal punto che la posizione al sole, la difesa dagli attacchi esterni, lo sfruttamento delle risorse territoriali a disposizione, i materiali del luogo utilizzabili nell’edilizia, erano tutti elementi partecipi nella progettazione. Oggi il Palazzo appare così concepito anche grazie alle attente operazioni di restauro svolte dal 2003 al 2009, le quali hanno rivolto l’attenzione allo studio dell’intorno (la piazza, e gli edifici adiacenti) valorizzando così il paesaggio e la sintonia tra l’edificio e il suo ambiente. Ecco perché nel piano urbanistico, con il completamento dei lavori di restauro è stata rinnovata anche la piazza a ridosso del palazzo, per i cui arredi è stato impiegato l’uso esclusivo dello stesso materiale in pietra della residenza assessorile. […] Lo scopo dei piani urbanistici non può esaurirsi nel conservare ambienti di pregio, o nell’accompagnare le trasformazioni limitando i danni, ma deve spingersi oltre e prefigurare ambienti e paesaggi in cui si possa vivere bene e dove possono convivere in equilibrio uomo e natura. La semplicità tipologica e costruttiva di Palazzo Assessorile si ripercuote anche all’esterno, nella sua facciata. Dove i parametri esterni diventano la pelle dell’edificio, in un rapporto equilibrato di pieni e di vuoti, si esprimono attraverso aperture e decorazioni ben allineate e in asse con il tetto e con l’entrata principale. Il palazzo consiste in una massiccia costruzione, elevata su tre piani, decorata sulla facciata con finestre, bifore, poggiolo e portale ogivale.
Ancora oggi la facciata del Palazzo è uno dei più ragguardevoli esempi di architettura signorile quattrocentesca, movimentata dalle quattro bifore gotiche trilobate, da finestre a croce guelfa, coronata con una merlatura continua, con feritoie, archibugiere e arricchita dalla presenza di due caditoie a naso, localizzate nella zona centrale a guardia dell’ingresso e da un portone ogivale con contorni in pietra sagomati. L’importanza, degli elementi architettonici in facciata, è diversa a seconda della distanza da cui vengono osservati. Da lontano sono importanti per dimensione, forma e numero con cui sono disposti, mentre da vicino sono rilevanti le rifiniture. Le bifore, in pietra dolomia, e il loro bancale decorato con diamantini, giocano in facciata un grande ruolo sia formale sia cromatico. Le due bifore centrali rinserrano il portalino in pietra rossa: esso formalmente riprende quello interno che introduce, a primo piano, nella stanza dell’antica torre, e come quello è decorato sulle teste delle mensole con il motivo a diamantini. La scelta dei materiali lapidei utilizzati negli elementi architettonici più rappresentativi di Palazzo Assessorile si lega a diversi fattori: la reperibilità della pietra, le sue caratteristiche di resistenza e la lavorabilità e aspetti più strettamente estetici come il colore. Le bifore trilobate del prospetto sud sono costituite da una pietra dall'aspetto poroso, tenera e facilmente lavorabile, capace di mantenere dettagli scultorei piuttosto elaborati. Si tratta della dolomia, presente anche nelle finestre a croce guelfa sui prospetti sud ed est. La sua colorazione bianca è posta in voluto contrasto con il colore rosso della pietra calcarea di cui sono formati altri elementi di facciata, come la porta del balcone sul prospetto sud e, all'interno, la porta d'ingresso alla sala della colonna del primo piano. Questo secondo tipo di pietra, presente sia nella sua colorazione rossa sia in quella bianca, fa parte della formazione del Rosso Ammonitico di Trento e possiede un alto grado di compattezza e un aspetto quasi marmoreo. Il gioco in facciata tra elementi lapidei bianchi e rossi potrebbe essere legato ai colori dello stemma della casata dei Clesio; il motivo a punta di diamante presente nei bancali e nei capitelli delle bifore trilobate e nelle mensole della porta del balcone del secondo piano e di quella d'ingresso alla sala della colonna del primo piano è una tipologia decorativa diffusa in un'area molto vasta a partire dal primo Quattrocento. Palazzo Assessorile si può definire un museo di se stesso, poiché al suo interno enorme è il carico di testimonianze culturali che racchiude in sé: dalle vicende storiche medievali ricordate dalla primitiva casa torre, alle famiglie patrizie tardo - medievali, alla vita pubblica, fino alle prigioni, che rendono il palazzo un prezioso contenitore artistico unico in Val di Non. Il Palazzo è organizzato, come casa rinascimentale, su tre piani accessibili mediante scala a rampa unica. Si tratta di spazi idonei ad ospitare il signore proprietario del Palazzo e le sue attività ufficiali e rappresentative. Il pianoterra era un deposito, adibito alla conservazione dei beni di sussistenza; il primo piano assolveva al ruolo di uffici di cancelleria; il secondo piano rispondeva alle esigenze di residenza privata, così come il terzo, il cui aspetto e funzionalità furono ulteriormente accresciuti dall’intervento di Anna Wolkenstein. Pianoterra L’antico portale in pietra in forma ogivale dà accesso al pianoterra, composto da un atrio, il quale a sua volta dà accesso a tre locali privi di affreschi. Nella parete nord dell’atrio due aperture ad arco immettono, a sinistra, nella Sala della Colonna e a destra nel corridoio che conduce alla scala. La Sala della Colonna, corrispondente allo spazio dell’antica torre, ripetuta ugualmente al secondo piano, costituisce un’ampia sala coperta da volte a crociera che scaricano su un semplice pilastro centrale a conci di pietra a vista lavorati a martellina grossa. Quest’ambiente in origine era certamente un deposito e poi, nel tempo, dimora del bestiame. Salendo la scala che conduce al primo piano è ben visibile il muro della primitiva torre definito da una feritoia e un tratto della sua antica tessitura. Primo Piano Al primo piano si ripete lo schema strutturale del pianoterra con l’angolo nord-ovest costituito dalla torre. Salite le scale si accede, a destra, alla Sala della Colonna. Si entra varcando un portalino in pietra rossa, con piedritti lavorati, in testa, con piccole bugne a punta di diamante e architrave. La Sala della Colonna è voltata, come quella sottostante, con crociere che scaricano, al centro, su un pilastro circolare in pietra bianca lavorata a martellina fine con un semplice capitello e cuscino quadrato molto schiacciato. Alle pareti, incastrati nella muratura, risaltano peducci in pietra bianca, anch’essi lavorati a martellina fine e anch’essi, come la colonna, chiari elementi di recupero. Procedendo, a sud, si accede in una stanza, centrale alla facciata e con due finestre. In essa è visibile, in corrispondenza del fianco sinistro della porta, l’angolatura sud-est della torre parzialmente coperta da un affresco decorativo, che prosegue in alto sopra la porta. Esso è costituito da una fascia racchiusa da due bande parallele rosso scuro che contengono una corona circolare del medesimo colore, circoscritta a un fiore stilizzato. Tale decorazione era comune a costruzioni civili e religiose del periodo compreso tra il Trecento e la fine del Quattrocento. Sotto la fascia si intravedono tracce di colore di una decorazione a tappezzeria a bande verticali bianche e rosse: i colori araldici della famiglia Cles.
Salendo al secondo piano, si accede alle zone più prestigiose del Palazzo: la Sala del Giudizio, la Sala del Balcone, la Stanza con Erker e il Vestibolo. Da questo momento in poi l’osservatore è chiamato a ripercorrere tutta una serie di motivi decorativi tra cui la ricca decorazione delle pareti, affrescate con motivi geometrici circolari rossi su fondo bianco, il calore dei soffitti lignei con le loro decorazioni pittoriche; e soprattutto la fascia superiore dipinta ad affresco, distribuita nello spazio seguendo la conformazione dell’architettura, assorbendo elementi come l’apertura delle bifore o eventuali nicchie aperte nelle pareti.
Il terzo piano era l’appartamento privato di Anna Wolkenstein moglie di Aliprando di Cles, nipote di Bernardo Cles. Dopo la morte di Anna Wolkenstein il palazzo fu di proprietà dei signori di Cles fino al 1622 quando fu acquistato da Volfango Teodorico Thun. Successivamente quando nel 1677 il palazzo divenne proprietà della Magnifica Comunità di Cles, il terzo piano subì dei cambiamenti. Le sue stanze affrescate furono adibite a carcere e rimasero così fino al XIX secolo. Questa conversione determinò non solo l’annullamento della destinazione d’uso originaria del terzo piano, ma soprattutto un degrado artistico degli affreschi. Nel 1803, dopo la secolarizzazione del Principato vescovile di Trento, le pareti delle stanze vennero rivestite con assi di legno e divennero vere e proprie prigioni sino al 1970 circa.
Solo nel 2009, in seguito alla lunga operazione di restauro, circa cinque anni, voluta dall’amministrazione comunale di Cles, le pareti affrescate sono affiorate da sotto le assi lignee delle celle e insieme a loro anche gli autentici pavimenti in battuto di calce. Il minuzioso restauro ha compreso anche la rimozione dei tamponamenti di porte e finestre originali e la rimessa in vigore dei soffitti lignei. Grazie al restauro, per la prima, volta Palazzo Assessorile venne visto anche come dimora signorile dei signori de Cles e non solo come il luogo in cui fu amministrata la giustizia. Il Palazzo Assessorile termina con la presenza del sottotetto. Nato con funzione di difesa in seguito alle rivolte contadine durante la Guerra Rustica, sul perimetro esterno si possono notare le caditoie a naso, mentre nella parte merlata si alternano le feritoie. In ogni prospetto le feritoie, verso gli angoli, sono dipinte così da attribuire alla struttura di difesa anche un valore decorativo, assunto dopo i primi decenni del Cinquecento, quando erano andati via via scemando gli eventi tumultuosi dovuti alle guerre e alle lotte intestine. La superficie di questo piano è totalmente libera, senza mura divisorie, che lo fa apparire un ampio spazio che crea un imponente vuoto. Tutta la struttura portante del tetto in travature di legno è a vista con tradizionali capriate che sostengono la copertura a quattro falde con una conversa a nord, conseguente alla diversa lunghezza di falda, e un aggetto centrale a sud, come protezione del balcone del secondo piano. Il manto di copertura è in tegole marsigliesi. L’unica apertura presente si trova sulla falda est, dove vi è un piccolo abbaino che permette l’uscita per l’ispezione al tetto.
I graffiti della memoria
Nella seconda metà del Seicento il lussuoso terzo piano fu adibito a prigione, e ivi, per più di un secolo, furono collocati i prigionieri. Coloro che vi furono rinchiusi lasciarono memoria del loro passaggio e tracciarono graffiti sulle pareti affrescate. Graffiti coperti poi, agli inizi dell’Ottocento, da pareti di legno ottenute con assi in larice, utilizzate la fine di ricavare dalle stanze otto celle, che formavano così una specie di scatola lignea con inferriate alle finestre. Anche in queste celle i detenuti incisero i loro pensieri ed ideali nel legno fino ai primi anni settanta del Novecento. I graffiti, rimasti nascosti fino all’ultimo restauro, comprendono incisioni eseguite a fatica con strumenti di fortuna, segni e nomi propri che ricordano storie di detenuti politici e le cui sorti hanno avuto spesso un tragico finale. Grazie al restauro, questa parte di Palazzo Assessorile torna a rivivere nell’esposizione permanente con sede al pianoterra di Palazzo Dal Lago, posto di fronte a Palazzo Assessorile. Qui le porte, le catene, le inferriate e le cornici di pietra delle finestre vengono restituite alla popolazione e narrano la loro storia attraverso le incisioni. Anche nella piazza antistante l’entrata di Palazzo Assessorile si possono notare, incastonate nella pavimentazione, le cornici in pietra delle finestre da cui si affacciavano i prigionieri: anch’esse sono state incise e sono testimoni delle loro storie.
Gli affreschi
Palazzo Assessorile conserva un rilevante corpus di intonaci decorati, ascrivibili a due diverse fasi principali, una tardogotica, legata strettamente alle modifiche apportate all’edificio durante la gestione del cavaliere Giorgio di Castel Cles sul finire del Quattrocento ed una rinascimentale, collegata agli ingenti lavori di ammodernamento voluti dai coniugi Aliprando di Castel Cles e Anna Wolkenstein negli anni Quaranta del Cinquecento. L’affresco più antico, ascrivibile alla prima fase decorativa, è datato 1484 e rappresenta l’insegna araldica della famiglia Cles. Apposto sulla facciata principale dell’edificio, immediatamente sopra il portale a sesto acuto, rappresenta l’unica decorazione ad affresco dei prospetti esterni. L’opera è attribuibile ad un pittore di ambito tedesco di insolita qualità, chiamato ad operare al palazzo grazie alla prestigiosa committenza di Giorgio di Castel Cles, Capitano delle Valli di Non e di Sole. Il dipinto, inscritto in una finta cornice prospettica in pietra, reca al centro lo scudo partito d’argento e di rosso con i due leoni rampanti, in alto il cimiero con un leone rosso nascente; l’insegna è presentata all’osservatore da due angeli a grandezza naturale, ad ali iridate e spiegate, di elegante fattura tardogotica. Nella parte alta del dipinto, immediatamente sotto il balconcino in pietra, sono ritratte due figure a mezzobusto, affacciate a finte finestre, con ai lati immagini di falchi e poiane posati al davanzale, attributi della nobiltà della famiglia committente, dedita per passatempo alla falconeria. Nella parte inferiore dell’affresco l’iscrizione gotica, in parte lacunosa a causa della lapide apposta nel 1677 dalla Magnifica Comunità di Cles, reca la frase “Magnificus nec non strenuus […] castro Clesii miles (illeggibile) fecit dipingere […] domini 1484 […]” a testimonianza del rifacimento del Palazzo avvenuto nel 1484 per opera di Giorgio.
Decorazioni ad affresco, forse coeve al dipinto di facciata, si trovano al primo piano del palazzo: due stanze comunicanti poste lungo il fronte meridionale conservano lacerti di decorazione a finta tappezzeria a bande bianche e rosse, ispirate all’araldica clesiana. Sopra il finto parato si sviluppa un fascione decorato con figure geometriche di stelle a sei raggi, che ricordano il fiore della vita o fiore della Alpi, elemento simbolico di rinascita e risurrezione, ricorrente durante tutto il Medioevo e diffuso principalmente sull’arco alpino. Tale decorazione era infatti comune a costruzioni civili e religiose del periodo compreso tra il Trecento e la fine del Quattrocento.
Il secondo ed il terzo piano del palazzo conservano estesi cicli affrescati ascrivibili alla seconda fase decorativa, espressione del periodo più illustre nella lunga storia dell’edificio. Nel 1538 Bernardo Cles, cardinale e principe vescovo di Trento, firma il testamento a favore del nipote Ildebrando (Aliprando) di Iacopo: cavaliere, nobile dell’Impero, Ciambellano ereditario del Tirolo, Capitano delle Valli di Non e di Sole e dei Quattro Vicariati, che nel 1529 sposa la nobile Anna Wolkenstein. Aliprando e la moglie inaugurano una nuova stagione nel palazzo, trasformandolo in pregevole residenza cinquecentesca, specchio di personalità colte ed influenti. É probabile che la coppia abbia vissuto i primi anni di matrimonio nel grande castello avito, posto a Nord-Est del borgo di Cles e che si sia trasferita nel palazzo solo nel 1542, a causa dei danni subiti dal castello dopo un grave incendio. Per adornare le sale del primo e secondo piano Aliprando convoca artisti già operanti per lo zio Bernardo al Castello del Buonconsiglio di Trento e negli altri cantieri clesiani sparsi nel territorio del Principato; per le forti affinità con gli affreschi presenti, per l’appunto, al Buonconsiglio ed al Castello di Cles, la critica si ritrova concorde nell’ipotizzare la paternità dell’intervento esecutivo alla bottega del vicentino Marcello Fogolino. Il secondo piano del palazzo possiede caratteristiche planimetriche e - per quanto riguarda gli affreschi - iconografiche, in grado di far pensare ad un utilizzo di rappresentanza. L’ambiente principale, la cosiddetta Sala Baronale, rivela quest’uso con la sua dimensione e la sua magnificenza decorativa. Le pareti, quasi interamente affrescate, presentano una finta tappezzeria con motivi geometrici e floreali di colore bianco e rosso nella parte inferiore ed un lungo e fastoso fregio rinascimentale nella parte superiore. Quest’ultimo è l’elemento focalizzante l’intera sala e più che essere una pura decorazione a grottesca viene definito dalla critica artistica come un perfetto esempio di peopled-scroll (letteralmente decorazione abitata), iconografia mutuata dai motivi della scultura romana d’epoca imperiale, nel quale l’insieme è reso vivace e movimentato dal susseguirsi di tritoni, nereidi, satiri, divinità come Diana e l’Abbondanza o figure allegoriche come la scimmia incatenata recante una mela o la personificazione dell’Amicizia. Quest’ultima è raffigurata come una giovane donna con il seno parzialmente scoperto, posta accanto ad un fuoco ed indicante un cartiglio con il motto “QVAM FAVSTE NIL FICTVUM IN AVRVM SEMPER IDEM”. L’immagine della figura femminile è una citazione letterale, come ha osservato Michelangelo Lupo, della Didone incisa dall’emiliano Marcantonio Raimondi nel 1510: identica la posa e la fisionomia del viso come perfettamente identiche le pieghe delle vesti. L’intero fascione affrescato funge da cornice ad una lunga serie di emblemi araldici appartenenti alle famiglie imparentate con i Cles e i Wolkenstein. Il susseguirsi degli stemmi Wolkenstein, Cles, Arco, Firmian, Völs Colonna, Künigl, Trautmannsdorf, Lodron, - come, del resto, la già citata rappresentazione dell’Abbondanza - serve ad enfatizzare la potenza dei due coniugi ed a colpire il visitatore.
Immagini di straordinaria forza plastica, accenti cromatici di sobria e convincente naturalezza, caratteri stilistici che costituiscono l’apice del rinnovamento del Palazzo. La bottega di Marcello Fogolino, oltre ad affrescare le pareti della sala, decora il soffitto ligneo, conservatosi solo in parte, con ventitré tavolette raffiguranti animali dipinte a monocromo. Fra le tavolette si trova raffigurato anche lo stemma Wolkenstein mentre lo stemma Cles, sicuramente esistente in origine, è ora mancante. Dalla Sala Baronale si accede a tre sale contigue e comunicanti, della stessa dimensione, poste lungo il lato meridionale. La sala centrale, detta Salotto del balcone, presenta il soffitto ligneo decorato conservatosi interamente e pareti affrescate da iconografie esaltanti la figura di Aliprando. Analogamente alla Sala Baronale, il salotto vede una decorazione ad affresco suddivisa in due fasce orizzontali: mentre l’inferiore presenta una finta tappezzeria bianca e rossa con intricata decorazione geometrica, la superiore si caratterizza per un elaborato fregio a grottesca della suddetta tipologia a racemo abitato, tipico dell’arte fogoliniana. I lati principali del fregio, quelli meridionale e settentrionale, ospitano due crittogrammi in lettere capitali intrecciate, formanti il nome ALIPR-ANDUS. Le iscrizioni sono affiancate dai leoni clesiani, bianco e rosso, pronti per attaccare draghi alati, capre, lupi e satiri, possibile allusione alla lotta fra l’umano ed il selvatico, tra spirito umanistico e ‘barbarie’, tra il bene ed il male. I draghi alati raffigurati sono un chiaro rimando all’arte di Giulio Romano ospitata nella Sala di Psiche in Palazzo Te a Mantova, dove un dragone con le fauci spalancate richiama non solo i mostri dipinti dalla bottega di Fogolino a Cles ma anche analoghe iconografie rappresentate dall’artista vicentino nel Palazzo della Magnifica Comunità a Cavalese e in Palazzo Firmian a Trento. Lungo le pareti minori del Salotto del balcone, il fregio reca da una parte la data 1543, inserita all’interno di una targa, e dall’altra una testa di Medusa, allusione forse alla forza ‘pietrificante’ del nobile cavaliere Aliprando. Dal portalino occidentale si accede alla Stanza dell’Erker, così chiamata per la presenza di un ampio sporto. La sala ha perso gran parte della decorazione ma conserva alcuni fra i più interessanti affreschi di tutto il palazzo, visibili all’interno dell’erker. Nelle tre lunette sono ospitate le personificazioni delle Quattro stagioni: la Primavera ha le fattezze di una splendida fanciulla affiancata da amorini, l’Estate quelle di Cerere, l’Autunno quelle di un paffuto Bacco seduto allegramente su una botte di vino, l’Inverno quelle di un anziano che si riscalda accanto ad un camino. Le vele della volta sono decorate con le immagini del Sole e della Luna e con cartigli recanti iscrizioni in italiano volgare: DA QUESTE LUCI IL SPLENDOR NOSTRO NASCE; SOL LA TUA LUCE L’OMBRA MIA REMOVE; COSSI RISPLENDE D’UN CORTESE IL NOME. Si noti come la volontà di rendere evidente al visitatore la preparazione e cultura della committenza si espliciti, negli affreschi all’interno del palazzo, tramite l’utilizzo di iscrizioni in greco, latino, tedesco e italiano. Gli affreschi della Stanza dell’Erker, contemporanei o forse leggermente più tardi rispetto agli altri dipinti presenti al secondo piano, sembrano appartenere ad una mano diversa rispetto a quella di Marcello Fogolino, forse al pittore veronese Antonio da Vendri, attestato al fianco dello stesso Fogolino in Castel Selva a Levico. Gli affreschi del secondo piano si completano con le decorazioni della Sala del Vestibolo, corridoio che collega il Salotto del balcone al torricino posto sul lato Nord. Questo ambiente stretto e lungo, particolarmente buio per l’assenza di finestre, reca una finta tappezzeria a fasce bianche e rosse nella parte inferiore ed un caratteristico fregio fogoliniano a grottesca nella parte superiore, con girali e tritoni dipinti su un fondo giallo oro. Lungo le quattro pareti si legge la scritta HAC CASTE ITUR RELLIGIONE (“Da questa parte si va castamente con religione”), di incerta interpretazione.
Il terzo piano di Palazzo Assessorile, prima dei restauri ultimati nel 2009 sotto la direzione della Soprintendenza per i beni culturali della Provincia Autonoma di Trento, ospitava le carceri allestite ufficialmente poco dopo la secolarizzazione del Principato, anche se in realtà gli spazi erano utilizzati in tal modo a partire dall’ultimo quarto del Seicento. Durante i restauri la scelta della Soprintendenza è stata quella di rimuovere tutte le aggiunte e modifiche dei secoli successivi per esaltare il valore storico e artistico di una residenza fra le più importanti del Principato di Trento nel Cinquecento. I lavori hanno infatti permesso di riscoprire centinaia di metri quadri di affreschi celati per secoli sotto i tavolati di legno che rivestivano le celle. Gli affreschi scoperti al terzo piano sono la testimonianza della complicità tra Aliprando e Anna: le sale sono magnificamente affrescate e gli stemmi che campeggiano nei soffitti lignei celebrano la loro potenza. Anna fu indubbiamente una donna brillante e colta, con una personalità tanto forte da essere coinvolta nelle scelte decorative delle stanze di un piano che pare essere stato di utilizzo privato da parte della coppia. Gli affreschi scoperti, probabilmente coevi o di poco successivi a quelli presenti al secondo piano, si possono suddividere in due gruppi. Il primo è riferibile alle tre stanze poste lungo la facciata meridionale, caratterizzate da dipinti con fregi a grottesca e soggetti classici, il secondo al Vestibolo ed alle attigue Stanza del camino e Stanza del Torricino, dove è emerso un imponente e unitario ciclo con trentaquattro scene di soggetto biblico. Quest’ultimo insieme rappresenta un unicum all’interno del territorio trentino e dell’intero arco alpino, ad eccezione dei riquadri a tema biblico affrescati in Valtellina, nel Palazzo Besta a Teglio, dove però il numero delle scene è di gran lunga inferiore. Le scene bibliche dipinte in Palazzo Assessorile sono tratte, con lievi modifiche dovute alla dimensione dei riquadri, da un libro edito nel 1533 da Christian Egenolph e intitolato Biblicae Historiae, Artificiosissimis picturis effigiatae. Biblische Historien Künstlich fürgemalet, corredato dalle incisioni del grande artista di Norimberga Hans Sebald Beham. L’attribuzione è dovuta alla dott.ssa Laura Dal Prà, direttore del Catello del Buonconsiglio - Monumenti e Collezioni Provinciali, che in un saggio del 2014 ha ben spiegato come il ciclo di Cles riprenda l’impaginato complessivo del volume, comprese le citazioni bibliche in lingua tedesca a corredo di ogni singola scena. La scelta di Aliprando ed Anna risulta chiara: incaricare uno degli artisti operanti nel palazzo, forse appartenenti alla stessa cerchia di Marcello Fogolino, di dipingere le scene presenti sulla bibbia illustrata di matrice tedesca e luterana, evitando stravolgimenti o interpretazioni personali. Risulta quindi possibile che Anna e Aliprando aderissero nascostamente alle idee riformate, in un periodo di diffusione delle idee protestanti terminato pochi anni dopo con le forti prese di posizione dettate dal Concilio di Trento; è un fatto comunque che molti esponenti della famiglia Wolkenstein furono sospettati di simpatie riformate, con casi di arresti fra i parenti di Anna per adesione a idee anabattiste e luterane. Per ulteriori approfondimenti si rimanda al citato saggio di Laura Dal Prà; si ricordano qui alcune fra le scene affrescate in Palazzo Assessorile: la Creazione di Eva, il Peccato Originale, l’Arca di Noè e la colomba, l’Uccisione di Abele, Loth e le figlie, il Sacrificio di Isacco, la Scala di Giacobbe, Giuseppe nel pozzo, I fratelli di Giuseppe dinanzi al Faraone, la Seconda Piaga d’Egitto, Giosuè che attraversa il Giordano, Gli esploratori di ritorno dalla terra di Canaan. Di tema completamente diverso, come accennato poc’anzi, gli affreschi presenti nelle tre salette poste a Sud. Tutti gli affreschi, di tema classico e mitologico, sembrano essere frutto delle maestranze fogoliniane ed esaltano le figure di Aliprando e soprattutto di Anna. La Stanza degli Dei ospita raffigurazioni di divinità olimpiche, immerse in un fregio con racemi vegetali, amorini ed animali: Diana cacciatrice con la luna crescente fra i capelli ed il levriero al fianco, Giove sostenuto dall’aquila e con le saette fra le mani, Marte con lancia ed armatura scintillante. La scelta iconografica e la mano di ambito fogoliniano rimandano con forza ad analoghe rappresentazioni allegoriche di dei dell’Olimpo presenti in Palazzo Firmian a Trento e in Castel Valer a Tassullo. La stanza introduce ad uno degli ambienti più suggestivi dell’intero palazzo, divenuto negli ultimi anni uno degli spazi più amati dai visitatori, ovvero la Camera di Anna. L’ambiente è così denominato perché nella finta tappezzeria ricorre con costanza il nome di Anna Wolkenstein, il quale si alterna al leone rosso rampante simbolo araldico dei Signori di Castel Cles. È questa la stanza in cui si celebra Anna come donna colta di alto rango, vera signora rinascimentale. Il fregio, intatto su tre lati della stanza e forse opera di maestranza pittorica tedesca di alta qualità, racchiude riquadri affrescati a monocromo rosso su fondo blu, separati tra loro da colonne dipinte, il cui insieme genera un effetto visivo di bassorilievo entro illusionistiche architetture. Due delle tre rappresentazioni propongono situazioni in cui è centrale la figura di una donna, forse per celebrare la personalità di Anna Wolkenstein. Il primo riquadro posto sulla parete sud, racconta il mito de l’Uccisione del cinghiale di Calidone, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio. La leggenda narra che, dopo un abbondante raccolto, la popolazione di Calidone dimenticò di onorare Artemide, dea dei campi coltivati. La dea, indispettita, aveva quindi mandato a sfavore del paese un cinghiale di proporzioni eccezionali che rovinava i campi e uccideva i sudditi del re. Quando Meleagro seppe dei tragici effetti causati dal cinghiale, si sentì in obbligo di liberare il paese dall'orrida creatura. Per questo, riunì un gran numero di eroi provenienti da tutta la Grecia. Tra questi c’era anche Atalanta, una giovane cacciatrice, che per prima riuscì a sferrare una freccia che colpì il cinghiale. La scena, inserita in un bosco, con Atalanta raffigurata con l’arco teso, pronta a scagliare la freccia, riprende per composizione la xilografia del foglio 67v de L’Ovidio Metamorphoseos vulgare di Giovanni Bonsignori, prima edizione illustrata delle Metamorfosi, stampata a Venezia nel 1497. Il secondo riquadro, proseguendo in senso orario, raffigura una scena drammatica, il Combattimento di Orazi e Curiazi, riconducibile forse ad una composizione a stampa di Giulio Romano, con sei soldati impegnati in un duello a spada: una rievocazione pittorica del combattimento, narrato da Tito Livio, fra gli Orazi e i Curiazi, nella leggendaria guerra che oppose le due città del Lazio, Roma e Alba Longa. Il duello si concluse con la vittoria dell'Orazio, che fu la vittoria di Roma, cui Albalonga si sottomise. Ma Camilla Orazia, sorella dell'Orazio superstite e promessa sposa di uno dei Curiazi uccisi, rimproverò così duramente del delitto il fratello che questi la uccise per farla tacere. La parete nord ospita la scena più interessante fra le tre, quella della Caccia con il falco, uno degli svaghi preferiti dal ceto nobiliare. Qui l’artista si dimostra abile compositore di fondali naturali in prospettiva, oltre che analitico testimone dello sfarzo cavalleresco del corteo rinascimentale, in cui i protagonisti a cavallo potrebbero essere Aliprando Cles e Anna Wolkenstein, accompagnati da alcuni dei dodici figli. La decorazione della stanza si completa con una serie di medaglioni raffiguranti ritratti classici di difficile attribuzione uno dei quali, posto sulla parete Ovest e particolarmente curato nella resa naturalistica, potrebbe appartenere alla stessa Anna. La terza ed ultima sala affrescata al terzo piano di Palazzo Assessorile è la cosiddetta Stanza di Apollo, ornata nella parte bassa da una finta tappezzeria a motivi geometrici bianchi e rossi, consueto richiamo ai colori araldici della famiglia Cles. Al centro del fregio, impreziosito da racemi abitati da uccelli fantastici, campeggiano i ritratti dei busti marmorei del dio del Sole e della arti Apollo, di Geta, fratello dell’imperatore romano Caracalla, che lo fece uccidere e di Agrippina, fatta uccidere dal figlio Nerone. L’artista riproduce accuratamente i tratti somatici e le acconciature e inquadra i mezzi busti entro una lunetta dipinta che, grazie al chiaroscuro, conferisce illusione di tridimensionalità ai ritratti. Rimane oscuro il perché Anna ed Aliprando abbiano scelto di raffigurare personaggi raramente rappresentati nelle dimore del Rinascimento come Geta e Agrippina, che peraltro, come scrive Massimo Negri, furono condannati alla damnatio memoriae; queste singolari scelte iconografiche rendono ancor più palese come i due coniugi possedessero una cultura singolarmente raffinata e aggiornata alle tendenze delle principali corti europee.